Erika Bussetti traccia un bellissimo ritratto di Ivo Saglietti
Foto di Ryuichi Watanabe (sullo sfondo il Decano dei Fotografi Italiani, G. Berengo Gardin)
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“Si vedono tante buone foto, ma poche importanti”.
Ivo Saglietti, come si racconta la visione della Storia
Tutto comincia con una inaspettata carrellata di immagini su un grande schermo tratte da La battaglia di Algeri.
La sala è gremita. Non una qualunque. Siamo al Grand Hotel et de Milan di via Manzoni, il più storico, affascinante ed elegante in città.
Qui dal 1863, anche lui sembra uscito da un film.
Non so quanti conoscano il film di Gillo Pontecorvo del '66 in sala, visto che ci sono anche molti giovanissimi, oltre agli amici di sempre.
Ivo Saglietti, un fotografo e giornalista che ha scommesso tutto, la vita stessa, per fare quello in cui crede è tutto di fronte a noi, nelle immagini che scorrono sullo schermo e che parlano più di qualunque libro di storia di cosa la Storia sia, quando ci sei dentro: dal Chile della fine degli anni '80 ad Haiti 2001-2003, dal Kosovo a Lampedusa fino alla Palestina (1979-2004).
Ivo Saglietti è uno dei fotogiornalisti italiani che abbiamo la fortuna di avere. Uno che sembra non aver mai scattato senza prima riflettere, non solo su diaframma, velocità e messa a fuoco, ma su quello che stava per raccontare, uno che conosce la storia dei paesi in cui si inoltra e il suo divenire.
Avere cultura fotografica, non a caso spiega durante l'intervista con Maurizio Garofalo, significa “avere una visione politica del mondo, che non vuol dire ideologica, ma politica”, significa, appunto, conoscere la Storia per poter ragionare sul presente. Carattere solitario, viso profondo di visioni, tutte quelle vissute viaggiando, Ivo racconta degli inizi difficili del mestiere, della fame e dei servizi svolti per giornali che non pagavano.
Così, “piuttosto che fare la fame in Italia la faccio a Parigi” pensò un giorno e partì.
Una storia già sentita, probabilmente consolante per i 94 mila giovani italiani che, solo l'ultimo anno, sono partiti per cercare fortuna all'estero.
Non cambia mai niente...pensa la sala in sottofondo.
Ed ecco che affiorano i ricordi, il racconto di una vita fatta di incontri folgoranti e decisivi, perché la storia di Ivo non sembra proprio quella di uno deciso a farsi fermare dalle prime avversità, né dalle paure, dai rischi o dalle incognite.
Vede La Battaglia di Algeri per la prima volta nel '70, la scena della tortura lo folgora e capisce che vuole fare il Cinema.
Poco dopo avviene un incontro, con l'amico Sandro Bignanti, che all'epoca studiava in una scuola di cinema a Torino e gli dice di seguirlo. Ivo sente quell'incontro come un segno, molla il lavoro “sicuro”, in edilizia, accetta per questo di farsi prendere per pazzo e comincia nel grande schermo come assistente operatore.
Scopre ben presto però che il cinema è più bello vederlo che farlo e che l'ambiente corporativista e settario ben non si addice al suo carattere schivo e controcorrente.
L'altro incontro decisivo è con un volume di fotografie di Eugene Smith.
Sfogliandolo, arriva come un lampo l'intuizione istintiva: “Voglio fare il fotografo”.
Che belle parole da dire a se stessi, che coraggio a provarci, che piccolo miracolo saper seguire il proprio istinto e farlo realizzare.
La prima macchina fotografica è una Leica M3 50mm con pellicola Kodak Tri-X, la stessa di Cartier-Bresson. La prima città con cui si misura: Parigi. La prima scuola: la strada.
La prima agenzia per cui lavora: Sipa Press di proprietà di un fotogiornalista turco per cui inizia a lavorare, finalmente pagato.
Ed ecco il primo assignment: Nicaragua e Salvador in coincidenza con l'assassinio di monsignor Romero (1980). Un colpo di fortuna per Ivo trovarsi lì per lavoro, perché l'evento fa immediatamente scattare l'interesse dei grandi media americani. Dopo la perdita del Nicaragua (1979) gli Stati Uniti non potevano permettersi di perdere anche il Salvador e con esso il controllo del centro America. Newsweek, Time... improvvisamente arriva un lavoro importante e ben pagato.
In viaggio un mese con Vargas Llosa, ma dopo tanto lavoro Ivo si vede pubblicare solo la foto di copertina, dal Time certo, ma il resto della storia dove è?
Da qui capisce che la sua visione del lavoro è un'altra e nasce l'idea dei progetti fotografici.
“Landscape in the mist” è quello che continua a scorrerci davanti, una raccolta di immagini proiettate sullo schermo mentre il pubblico ascolta rapito in silenzio la storia di un uomo, prima ancora che di un grande fotogiornalista. Dal Rio Bravo fino al Mar del Plata, Ivo viaggia per tutto il Sud America, così chiamato erroneamente, dice lui accentuando la voce, perché “quella è l'America”.
Il progetto finisce quando non arrivano più fotografie. Si torna a casa. Per presto ripartire, alla ricerca di profeti e rivoluzionari che possano cambiare il mondo più delle fotografie che li immortaleranno.
Come Padre Dall'Oglio, uomo simbolo del dialogo interreligioso con il mondo islamico, oggi speriamo prigioniero in Siria, che Ivo ama ricordare in una discussione in cui l'amico gli disse: “fotografate, fotografate, ma non cambia mai niente!” e a cui lui prontamente rispose: “e voi pregate pregate e non cambia mai niente”.
Ivo non crede più, come una volta, come tutti all'inizio, che il fotogiornalismo possa cambiare il mondo.
Oggi è il mondo ad essere cambiato, troppo in fretta che, anche la definizione “secolo breve”, a guardarci indietro, sembra quasi un'eufemismo.
Oggi le grandi agenzie e i grandi giornali non hanno più bisogno di professionisti competenti e profondi conoscitori della materia, perché hanno fotografi a qualunque tabaccheria all'angolo di ogni strada del mondo.
Tutti pubblicano le proprie fotografie online a quintali e più spesso senza nominare i file e così il diritto di utilizzo delle immagini altrui è totalmente arbitrario.
E così finisce anche che il “talento sia latitante ultimamente”, come dice Ivo.
Chiunque può appropriarsi via web di quello che è tuo, se non dichiari che ti appartiene, sottolinea Maurizio.
Che il fotogiornalismo oggi sia un mestiere difficile per tutti non teme di confessarlo nemmeno chi, come Ivo, ha fondato un'agenzia in Italia ed è socio di un'altra in Germania.
Lui però si ritiene un privilegiato per aver potuto fare questa vita, anche se in tempi in cui l'accesso ai libri era veramente cosa difficile e cara e per consegnare le diapo alle redazioni e alle agenzie c'era sempre bisogno di trovare uno o più corrieri che si passassero il pacco fino a destinazione.
Inoltre, “respirare ancora l'odore degli acidi, usare il lentino...sono tutte cose che per me hanno un valore”, spiega con amorevole insistenza. Anche per questo, pur lavorando anche con fotocamere digitali, i progetti personali sono scattati come sempre in pellicola.
È giunto il tempo di salutarci, non prima però di aver dato una sfilza di buoni consigli ai giovani che si affacciano al mestiere.
Ci sono ottime scuole di fotografia a Newport (UK) e in Danimarca da cui passare piuttosto che prendere e partire senza alcuna esperienza. Non necessariamente scuole da milioni di euro l'anno, a cui si possono ben sostituire invece un investimento ragionato in libri importanti, incontri di 8-10 giorni con uno o due maestri del mestiere, magari proprio con Ivo e le sue “Riflessioni sul secolo breve” e poi sì certo in viaggi, viaggi e ancora viaggi!
Perché nonostante tutte le difficoltà del momento e del mestiere, dobbiamo ricordarci che “anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”, come ha scritto uno dei padri spirituali di Ivo, il grande letterato francese Albert Camus.
Dobbiamo vivere in nome della libertà e della conoscenza, amando e credendo in quel che facciamo, ecco la lezione di oggi.
Grazie Ivo.
Erika Bussetti 24.10.2014